ALBERTO ZACCHERONI
Udinese, 1995-1998; AC Milan, 1998-2001; Inter de Milán, 2003-2004; Juventus, 2010
Sono rimasto la stessa persona cresciuta a Cesenatico, in Italia, che ha inziato la sua carriera da allenatore con una squadra di bambini.
La mia prima esperienza è stata con la seconda squadra del mio paese, si chamava Ad Novas. All’epoca ero ancora un giovane calciatore dilettante, ma la mia carriera si interruppe perché soffrivo di un problema ai polmoni e per questo faticavo a svolgere la stessa preparazione fisica dei miei compagni.
Allora, un pomeriggio, andai a correre in un campetto dove si stavano allenando due squadre di ragazzini. Una delle due squadre rimase sola perché gli allenatori avevano litigato.
Stavano aspettando di iniziare l’allenamento e l’allenatore rimasto mi chiese se potevo aiutarli. Mi sono divertito; il giorno dopo sono tornato ad allenarmi e questi ragazzini erano ancora lì, senza allenatore, e così la situazione si è ripetuta. Poco dopo mi sono ritrovato ad essere l’allenatore di quella squadra giovanile. La mia ‘ossessione’ come alleantore cominciò così.
La squadra principale del mio paese, il Cesenatico, notò come avevo gestito questo gruppo di giovani calciatori e mi chiese di allenare la squadra degli Allievi.
Durante la stagione la prima squadra del Cesenatico, a tre quarti del campionato, era ultima in classifica in Serie C2. Così decisero di licenziare l’allenatore ma non avevano i soldi per assumerne uno nuovo. Allora mi chiesero di prendere in mano la squadra.
All’epoca non ero abilitato come allenatore e sono subentrato grazie ad un deroga federale mancando meno di tre mesi dalla fine della stagione. Siamo riusciti ad evitare la retrocessione: nelle ultime 14 partite ne ho vinte sei e pareggiate quattro, nonostante ció la stagione seguente sono tornato ad allenare gli Allievi.
Nella stagione seguente, a tre mesi dalla fine del campionato, ancora una volta la società licenziò l’allenatore e mi chiese di dare una mano; ci salvammo anche quell’anno.
É stato deludente perché capii che il club non era interessato a sviluppare i giovani che allenavo e mi stavano usando quasi come un tappabuchi.
"Il sistema di gioco È come un abito: deve esaltare i pregi e nascondere i difetti"
Alla fine della stagione, speravo di andare ad Ascoli ad allenare la ‘Primavera’ ma alla fine non se ne fece nulla. Tuttavia avevo iniziato a ricevere molte offerte da squadre locali e nel 1985 accettai di allenare il Riccione, in Serie D.
Nella mia prima stagione, sono subentrato a metà campionato, e ci siamo qualificati per i playoffs, ottenendo 28 punti su 32, ma abbiamo perso lo spareggio.
Nella seconda stagione abbiamo vinto il campionato. Ho vinto il campionato di Serie D due volte, nel 1987 col Riccione e con il Baracca Lugo nel 1988; con il Baracca Lugo abbiamo vinto anche il campionato di C1 l’anno seguente– mi sono sempre divertito molto.
Ho avuto la fortuna di allenare in tutte le categorie in Italia. Ho visto giocatori di ogni livello e tutto ciò mi ha permesso di crescere come allenatore. Ho fatto anche degli errori e ho imparato da quelli.
Sopratutto ho imparto che è meglio adottare un sistema di gioco che consenta ai giocatori di esprimere le proprie qualità al massimo piuttosto che imporre la propria idea di calcio a tutti i costi. Il sistema di gioco è come un abito: deve esaltare i pregi e nascondere i difetti.
Essere flessibili è molto importante. Mi sono sempre concentrato sul miglioramento di ogni mio giocatore facendo sentire tutti al centro del mio progetto e dimostrando, durante gli allenamenti, come potevano migliorare.
Per esempio, sul finire degli anni 80 non tutti in Italia erano convinti della marcatura a zona. Mi piaceva perché credevo si adattasse meglio alle caratteristiche dei miei giocatori, anche se sapevo che i miei presidenti e direttori sportivi non erano convinti.
"Cruyff mi offrì addirittura un passaggio nella sua macchina. Mi tremavano le gambe per l’emozione"
Tutti si ricordano di me per i buoni risultati che le mie squadre hanno ottenuto.
Nel 1991 ho conquistato la promozione dalla Serie C alla B con il Venezia dopo 24 anni; nel 1994/95 con il Cosenza ci siamo salvati nonostante i nove punti di penalizzazione. Quell’anno in Calabria é stata particolarmente dura – non avevamo neppure un vero campo di allenamento: usavamo l’area tra la pista di atletica ed una delle porte.
L’Udinese mi ha dato maggiore visibilità. A cavallo tra gli anni 80 e anni 90 l’Udinese era una squadra che comprava solo giocatori a fine carriera. E così faceva fatica a restare in Serie A per più di una stagione – era un continuo retrocedere ed essere promossi dalla B.
Lì ho cambiato alcune cose. Ho dato opportunità a giocatori giovani, ad altri ho cambiato posizione in campo e ho messo in panchina alcuni tra i veterani. Per esempio, a centrocampo ho preferito far giocare Giuliano Giannichedda, che all’epoca aveva 21 anni, piuttosto che Stefano Desideri che aveva già giocato per la Roma e l’Inter.
I proprietari, la famiglia Pozzo, non erano contenti all’inizio. Sapevo che stavo rischiando ma, partita dopo partita, sono riuscito a convincerli. Dopo la mia prima stagione (1995/1996, quando da neo-promossi abbiamo finito il campionato undicesimi in classifica) l’intera filosofia dell’Udinese é cambiata. Il club ha iniziato a cercare giocatori giovani in giro per il mondo.
In tutte le squadre in cui sono stato non ho mai chiesto di comprare dei giocatori, a parte nel 2004 quando, a Gennaio, chiesi all’Inter di acquistare Dejan Stankovic, perché lo avevo giá allenato alla Lazio. Invece ho sempre cercato di lavorare con i giocatori che avevo a disposizione e questo é successo anche ad Udine.
Jonathan Bachini, Raffaele Ametrano, Marco Zanchi, Márcio Amoroso, Mohammed Gargo, Stephen Appiah…questi sono soltanto alcuni dei giocatori che ho contribuito a migliorare all’Udinese.
Amoroso, il Brasiliano, era arrivato come un numero 10 ma giocava in non piú di 10 metri quadrati e i difensori avversari riuscivano a marcarlo facilmente. Ho dovuto lottare per convincerlo a giocare da punta centrale dove, grazie alla sua velocità, era molto più pericoloso.
Infatti é stato capocannoniere della Serie A e della Bundesliga con il Borussia Dortmund.
"In quegli anni in Serie A tutte le squadre giocavano con il 4-4-2.
I giocatori creativi, come Del Piero o Roberto Baggio, erano usati come seconde punte"
All’Udinese ho messo a punto il 3-4-3 che mi ha reso famoso.
Ho iniziato a studiare questo modulo dopo esser stato esonerato dal Bologna, in Serie C, nel 1994. Ero disoccupato e decisi di guidare fino a Bercelona per vedere alcuni degli allenamenti di Johan Cruyff.
Un giorno ricordo c’ero solo io a vedere l’allenamento. Cruyff mi offrí addirittura un passaggio nella sua macchina. Mi tremavano le gambe per l’emozione.
Il Barcelona di Cruyff giocava con il 3-4-3 ma con un centrocampo a rombo e Pep Guardiola che si abbassava tra i difensori.
Con l’Udinese decisi di giocare con un centrocampo in linea perché in attacco avevo tre giocatori straordinari come Amoroso, Paolo Poggi e Oliver Bierhoff.
Non volevo che giocassero a 60 metri dalla porta o dovessero rincorrere i difensori avversari. Per questo ho deciso di inserire un centrocampista in piú nella formazione iniziale. In pratica, difendevamo soltanto con sette giocatori.
Inizialmente sembrava impossibile convincere i giocatori ad adottare questo nuovo modulo.
Non volevano cambiare. In quegli anni in Serie A tutte le squadre giocavano con il 4-4-2.
I giocatori creativi, come Alessandro Del Piero o Roberto Baggio, erano usati come seconde punte e altri, come Gianfranco Zola, non trovavano spazio e sono dovuti andare all’estero.
Per cercare di convincere i miei giocatori proposi di fare un patto: “se a venti minuti dalla fine stiamo perdendo, giocheremo con il 3-4-3 invece di limitarci a crossare palloni in area”.
I giocatori non erano convinti ma accettarono la mia proposta e, alla fine, riuscimmo ad ottenere dei buoni risultati.
"prima cosa chiamai i giocatori più esperti: Demetrio Albertini, Alessandro Costacurta e Paolo Maldini"
Ogni settimana lavoravo sul modulo durante gli allenamenti ma il momento cruciale, per quella squadra, e in parte anche per la mia carriera, fu un pomeriggio di Aprile del 1997. Giocavamo a Torino contro la Juventus, la capolista in Serie A.
La Juventus stava dominando il campionato e solamente sette giorni prima aveva battuto il Milan 6-1 a San Siro. Dopo appena 50 secondi l’arbitro, Roberto Bettin, espulse senza motivo Régis Genaux, un difensore. Invece di togliere un’attaccante decisi di passare alla difesa a tre, giocando col 3-4-2.
Sapevo che era estremamente rischioso. Se avessimo perso con cinque o piú gol di scarto la mia carriera da allenatore sarebbe stata compromessa. Ma decisi di provarci lo stesso e tutti i giocatori mostrarono il loro orgoglio. Vincemmo 3-0 con due gol di Amoroso e uno di Bierhoff. É stato un pomeriggio meraviglioso.
La settimana seguente giocavamo in casa del Parma che lottava per il titolo con la Juventus.
I giocatori erano nervosi prima della partita perché non sapevano che modulo avremmo adottato. Quando gli feci vedere il 3-4-3 alla lavagana tirarono un sospiro di sollievo: da quel momento vollero giocare solo in quel modo. Vincemmo anche a Parma, 2-0, e finimmo il campionato al quinto posto. Il club si qualificó per la prima volta per la Coppa UEFA.
Il 3-4-3 è un sistema molto complesso. In Italia diversi allenatori hanno cercato di replicarlo ma credo nessuno sia riuscito a metterlo in campo cosí bene come fece quell’Udinese.
Dopo aver raggiunto la qualificazione per la Coppa UEFA con l’Udinese per due anni di seguito sentivo era il momento di andare da un’altra parte. Tutte le grandi squadre mi chiamarono: Parma, Inter e persino il Real Madrid. Alla fine peró trovai un accordo con il Milan.
"Il mio rapporto con George Weah non È stato splendido. C’era rispetto tra di noi ma, semplicemente, non vedevamo le cose alla stessa maniera"
Adriano Galliani, il direttore sportivo, mi chiamó nell’estate del 1998. All’inizio pensai si trattasse di uno scherzo.
Sapevo che il Milan aveva Fabio Capello come allenatore ma la squadra veniva da due stagioni molto difficili, con un undicesimo e decimo posto in Serie A. Una settimana dopo quella telefonata, andai a casa di Silvio Berlusconi. Lì trovammo un accordo in meno di 30 secondi.
Il Milan aveva ottimi giocatori, ma era una squadra che stava diventando vecchia – Arrigo Sacchi e Fabio Capello non avevano avuto successo nei due anni precedenti. Per prima cosa chiamai i giocatori più esperti: Demetrio Albertini, Alessandro Costacurta e Paolo Maldini. Dissi loro che capivo le loro perplessità su di me, in fondo non ero stato un grande giocatore e volevo giocare con il 3-4-3 al quale non erano abituati.
Questi giocatori si sono mostrati subito disponibili. Mi dissero che dopo due annate difficilissime erano quasi disperati, e si misero a disposizione. I ‘senatori’ sono stati fondamentali per motivare gli altri a seguire i miei consigli. Per due mesi abbiamo lavorato intensamente in allenamento per far imparare ai giocatori come e dove muoversi nel 3-4-3.
Quell’anno non c’erano pressioni sulla squadra. Non giocavamo le coppe europee e quindi avevamo piú tempo per allenarci. La Lazio era una squadra molto piú forte ma a sette partite dalla fine pensarono di aver giá vinto lo Scudetto. Credo che non ci presero sul serio e hanno iniziato a rallentare. Poi appena li abbiamo avvicinati non hanno piú saputo riprendere il passo.
Quella squadra era piena di orgoglio. C’erano molto grandi giocatori, come Maldini e Costacurta, che volevano dimostrare di non essere dei calciatori finiti.
Maldini non riusciva più a coprire tutta la fascia sinistra come faceva in passato. Gli dissi di non preoccuparsi e di concentrarsi a fare solamente il terzino difensivo, quello che era sempre stato. Volevo che spingesse fino alla metà campo; ma se stavamo perdendo allora gli chiedevo di attaccare di più. Quell’anno segnò anche un gol e fece un paio di assist.
"Dopo il Milan perché l’Inter? Semplice. Sono sempre stato un tifoso neroazzurro"
Costacurta invece faceva fatica con le corse all’indietro, perché aveva perso un po’ di velocità. Ma tatticamente era eccezzionale, e quindi gli dissi di non preoccuparsi di inseguire i lanci lunghi ma di difendere solo ció che aveva davanti agli occhi. Gli diedi un area di campo da coprire più piccola e, alla fine, giocò benissimo. Riusciva a leggere la partita prima degli altri, poteva giocare anche con la sigaretta in bocca!
Il mio rapporto con George Weah non è stato splendido. C’era rispetto tra di noi ma, semplicemente, non vedevamo le cose alla stessa maniera. Lui voleva giocare da numero nove, ma quell’estate il Milan aveva già comprato Bierhoff. Non chiesi al club di comprare il Tedesco – Capello lo aveva già acquistato – e cosí quando sono arrivato l’ho trovato lí, ed é stata comunque una piacevole sorpresa.
Ovviamente non potevo chiedere a Bierhoff di giocare all’ala cosí decisi di spostare George sulla sinistra. Lì aveva 30 metri di fronte a sé e, con Andres Guglielminpietro a coprirlo, non doveva rincorrere i difensori avversari. Non era molto convinto di quel suo ruolo, ma quando rientrava sul destro era molto pericoloso.
Al Milan ho dato anche opportunità a giocatori giovani come Giuseppe Cardone, Lugi Sala e Christian Abbiati, ma il mio più grande rimpianto rimane Christian Ziege.
Cercai di convincere Ziege a giocare da esterno. Ero sicuro che avrebbe fatto benissimo in quel ruolo. Lui aveva la tecnica di un numero 10 – un grande sinistro che gli consentiva di segnare e fare assist – ma era anche capace di fare sú e giù per 90 minuti.
Purtroppo non ha mai accettato a pieno l’idea di non giocare da terzino sinistro e alla fine, dopo aver lasciato il Milan, non ha avuto una grande carriera.
Dopo il Milan perché l’Inter? Semplice. Sono sempre stato un tifoso neroazzurro. Quando ero giovane Tarcisio Burgnich, il difensore, era il mio idolo.
Nel 2003, Massimo Moratti licenzió Hector Cuper e mi offrì un contratto di due anni.
"Ma io ho sempre guardato a quello che i giocatori potevano dare in campo, non al loro curriculum"
Iniziai molto bene ma poi persi uno dei miei giocatori fondamentali, Francesco Coco, che giocava come esterno sinistro. Coco era importantissimo nel mio 3-4-3 ma si dovette operare e perse il resto della stagione.
Avevamo comunque una buona squadra con Christian Vieri, Adriano e Alvaro Recoba tra gli altri, e alla fine siamo riusciti a qualificarci per la Champions League. Ma Moratti aveva giá deciso di chiamare Roberto Mancini per la nuova stagione.
Credo che le due squadre di Milano erano diverse tra loro in quegli anni. Il Milan voleva vincere giocando un bel calcio e aveva coltivato negli anni una tradizione in questo senso.
Per l’Inter, al contrario, contava solo il risultato. Non vincevano il campionato da molti anni; probabilmente é per questo che erano concentrati solo a vincere quante più partite possibili.
Ho completato la mia esperienza con le ‘Tre Grandi’ quando ho firmato per la Juventus nel 2010. Era una situazione simile a quella che avevo incontrato al Milan. La squadra era piena di ottimi giocatori, ma molti erano in avanti con gli anni.
Ho fatto del mio meglio ed ero anche sul punto di firmare un nuovo contratto ma poi Andrea Agnelli diventò presidente della Juventus al posto di John Elkann e alla fine dell’anno venne scelto Luigi Del Neri.
Anche con Del Neri i risultati non migliorarono, la Juventus finì la stagione al settimo posto proprio come quando l’allenavo io.
Ho sempre trovato il modo di adattarmi. Ovviamente, quando non andavo d’accordo con un presidente o un direttore sportivo alla fine ho deciso di andare da un’altra parte.
Ma mi sono sempre concentrato ad allenare i giocatori, mai i presidenti. Non ho mai chiamato un presidente per lamentarmi, ma ho ricevuto telefonate da alcuni di loro che cercavano di suggerirmi la formazione. Ho sempre trattato tutti con il massimo rispetto e chiesto rispetto dai miei giocatori.
"La decisione di andare ad allenare la nazionale Giapponese nel 2010 non è stata influenzata dall’offerta economica"
Forse ad alcuni giornalisti non piaceva il fatto che non dessi la formazione prima delle partite, ma ho sempre preferito essere onesto con i miei calciatori. In tutti i grandi club dove sono stato ho sempre avuto una buona relazione con i giocatori – a parte alcuni, i più anziani, che a volte pretendevano di giocare sulla base di quello che avevano fatto in passato. Ma io ho sempre guardato a quello che i giocatori potevano dare in campo, non al loro curriculum.
Credo che da allenatore ho dato il meglio quando ho potuto allenare una squadra dall’inizio della stagione: ad esempio il Riccione, Baracca Lugo, Venezia, Cosenza, Udinese e Milan. Nelle altre squadre, quando sono stato assunto a metà della stagione, a volte é stato più complicato.
Ma ero sempre contento perché stavo allenando nel campionato più importante del mondo. All’epoca la Seria A forse non era il campionato più bello ma era sicuramente il più competitivo. Tutti volevano allenare in Italia. Ho ricevuto alcune offerte dall’estero ma non mi interessavano i soldi.
La decisione di andare ad allenare la nazionale Giapponese nel 2010 non è stata influenzata dall’offerta economica. Le nuove esperienze mi hanno sempre affascinato, e mi intrigava l’idea di vivere e lavorare in Giappone.
A dire il vero in Giappone ho guadagnato meno di quello che avrei guadagnato da altre parti. Ho sorpreso tutti con la mia decisione – persino mia moglie, all’inizio, non mi ha creduto.
Sono andato lì senza conoscere nulla del Giappone e della loro cultura calcistica ma è stata una esperienza straordinaria.
Abbiamo vinto la Coppa d’Asia nel 2011 e stabilito un record di imbattibilitá di 18 gare.
"Adesso, dopo una carriera lunga 40 anni, ho piú tempo per riflettere. Se tornassi indietro nel tempo rifarei tutto di nuovo"
Non parlavo Giapponese ma riuscivo lo stesso a spiegare le miei idee in allenamento. I giocatori erano davvero molto forti – molti sono finiti a giocare in Europa.
Mi sono innamorato di quell gruppo di giocatori – ancora oggi ci scriviamo messaggi – e sono rimasto impressionato dal rispetto e dall’educazione di tutti i Giapponesi.
Sentivo che anche loro mi amavano. Sono stati quattro anni indimenticabili.
Ho sicuramente imparato molte cose grazie alle tante esperienze che ho fatto nel calcio – ma mi è sempre piaciuto cambiare e cercare qualcosa di diverso. Ogni giocatore è diverso dall’altro, e ogni squadra é diversa. Per questo fare l’allenatore éè un mestiere fantastico.
Non mi considero un egocentrico. Mi piace condividere i miei obbiettivi, e i miei successi, con i miei collaboratori e i giocatori.
Tutti i risultati che le mie squadre hanno ottenuto sono arrivati grazie al lavoro e al sacrificio, e ho sempre creduto nelle qualitá dei miei giocatori. Credo di esser stato bravo a convincere molti giocatori a seguire le mie idee e ad interpretare il gioco in una maniera meno convenzionale.
Adesso, dopo una carriera lunga 40 anni, ed essendo tornato a casa a Cesenatico ho più tempo per riflettere. Se tornassi indietro nel tempo rifarei tutto di nuovo.
Ho sempre cercato di vincere, anche nelle situazioni piú complicate.
Ho sempre giocato con tre lì davanti, anche fuori casa. Sono sempre andato all’attacco.
Questo ero io da allenatore.